“Tu fatti i cazzi tuoi e pensa a giocare”. Ma si sono messi tutti d’accordo? Stavolta però a ricordarmi il mio “dovere” non è un elegante quarantacinquenne in giacca e cravatta. Chi mi sta di fronte, stavolta, è un quarantacinquenne che mi fa paura.
Giovedì sera, o meglio, giovedi notte. Il mio compagno L. ci ha invitati a cena per festeggiare il suo compleanno. Abbiamo tirato tardi e abbiamo bevuto tanto. Non troppo: tanto. A mezzanotte siamo usciti dal ristorante ma L. di andare a casa non ne voleva sapere. Ha venticinque anni, un sacco di soldi ed è il suo compleanno. C’è da capirlo. Assieme a un altro compagno, uno straniero arrivato quest’anno che in Italia sembra aver scoperto che non esiste solo il pallone, siamo andati in un locale di quelli un po’ fighetti. Niente di speciale, musica più o meno a palla, ragazze che mostrano le loro doti migliori e quella dose d’alcol che ti fa passare dall’aver bevuto tanto all’aver bevuto troppo.
A un certo punto L. si alza per andare a ordinare un nuovo giro. Trenta secondi dopo è steso per terra. Che cazzo è successo? E’ successo che ha preso un pugno sul naso e che per terrà c’è una specie di pozzanghera di sangue. Mi alzo di scatto. “Tu fatti i cazzi tuoi e pensa a giocare”. A dirmelo è uno dei capi storici degli ultrà della nostra squadra. Uno che di lavoro fa il capo della curva. Uno che la società ufficialmente sostiene di non conoscere ma al quale eroga ogni domenica decine di biglietti gratuiti, che lui gira a prezzo scontato ai suoi amici ultrà. La società non vuole casini allo stadio, perché i casini portano le multe e gli articoli sui giornali. Quindi sgancia i biglietti gratis e tollera la vendita di magliette, sciarpe e adesivi all’interno dello stadio, altro business occulto che frutta un bel po’ di soldi. Quello che ha steso L. vive così, e pare viva bene, a giudicare da come si veste: quel casual elegante che non riesce tuttavia a mascherare il suo atteggiamento da pappone.
Perché se l’è presa con il mio compagno? Non so cosa si sono detti ma di sicuro gli avrà fatto notare che un calciatore della nostra squadra non deve farsi vedere in giro ubriaco alle tre di notte. Quello che mi sta sul cazzo non è tanto che un tifoso si permetta di dare lezioni di vita, ma il fatto che gli ultrà hanno il potere di rovinare la vita di un calciatore. Ti aspettano fuori alla fine degli allenamenti e ti dicono le paroline giuste. Poi, se non capisci, premono perché tu venga ceduto. E la società non vuole casini: se non sei un campione è meglio accontentare gli ultrà. Ma la cosa che davvero non sopporto è il fatto che, ufficialmente, noi calciatori adoriamo gli ultrà. Avete mai letto un’intervista critica nei confronti del tifo organizzato? La verità è che se un calciatore potesse dire quel che pensa veramente direbbe che senza gli ultrà si starebbe tutti più tranquilli. Invece siamo costretti all’ipocrisia, a partire dal presidente. E’ vero che in curva c’è tanta passione per la squadra, che gli ultrà si fanno tutte le trasferte per incitarci. Non è una cosa che lascia indifferenti. Però ne faremmo volentieri a meno, giocatori e società, se potessimo anche fare a meno degli striscioni con scritto “andate a lavorare”, delle macchine rigate e di scene come quella a cui sto assistendo.
Anche perché se reagisco, se dico qualcosa, per quest’anno ho finito di vivere. Un giocatore che diventa nemico degli ultrà è un giocatore morto. Specie se non è uno che fa la differenza. Come me. L. si rialza toccandosi quel che resta del suo naso. Io riesco solo a chiedergli “come stai?”. Il suo “amico” se n’è già andato. Domani dirà a tutti che non ho avuto le palle per reagire. Sempre meglio che diventare un nemico degli ultrà.
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